Rosario raccomandato da Papa Francesco

Torna la Misericordina…

Rosario raccomandato da Papa Francesco

A quasi tre anni di distanza, è tornata oggi la “Misericordina”, il ‘medicinale’ per la salute del cuore e dell’anima che Papa Francesco aveva già distribuito durante l’Angelus del 17 novembre 2013. Anche oggi Francesco, dopo averla presentata dalla finestra del Palazzo Apostolico, ne ha donato 40mila confezioni ai fedeli riuniti in piazza San Pietro per la preghiera mariana.

“La Quaresima è un tempo propizio per compiere un cammino di conversione che ha come centro la misericordia”, ha esordito il Pontefice, “perciò, oggi, ho pensato di regalare a voi che siete qui in piazza una ‘medicina spirituale’ chiamata ‘Misericordina’. Già una volta l’abbiamo fatto, ma questa è di migliore qualità: è la Misericordina plus. Una scatolina che contiene la corona del Rosario e l’immaginetta di Gesù Misericordioso”. “Accogliete questo dono – ha esortato Bergoglio – come un aiuto spirituale per diffondere, specialmente in questo Anno della Misericordia, l’amore, il perdono e la fraternità”.

A distribuire gratuitamente la “Misericordina” sono stati ancora una volta i poveri, i senzatetto, e i profughi, insieme a molti volontari e religiosi, guidati dalla Elemosineria apostolica.

Le scatole del “medicinale spirituale”, del tutto simili a quella dei farmaci, contengono ciascuna il ‘bugiardino’ con la posologia e le istruzioni d’uso, in tre lingue, la coroncina della divina Misericordia di Santa Faustina Kowalska, composta da 59 grani intracordiali, e l’immagine di Gesù misericordioso.

L’iniziativa nasce in Polonia da un’idea dei seminaristi polacchi devoti a Santa Faustina, la suora iniziatrice del culto della “Divina misericordia”, che tanto ha influenzato San Giovanni Paolo II. A promuoverla ora, come nel 2013, è l’elemosiniere pontificio, mons. Konrad Krajevski, il quale l’avevaa presentata al Papa che, entusiasta, ne aveva approvato la distribuzione.

Furono circa 20mila le coroncine distribuite tre anni fa. Presentandola allora, Papa Bergoglio disse: “Non voglio fare il farmacista, ma voglio consigliare a tutti un medicina speciale, utile a concretizzare i frutti dell’Anno della Fede, che volge al termine. C’è una corona del Rosario con la quale si può pregare anche la ‘coroncina della Divina Misericordia’, aiuto spirituale per la nostra anima e per diffondere ovunque l’amore, il perdono e la fraternità”. “Non dimenticatevi di prenderla – aveva raccomandato il Santo Padre – perché fa bene al cuore, all’anima, a tutta la vita”.

Perdonate, non bastonate

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L’incontro era ormai saltato: gli ultimi preparativi per il viaggio in Messico avevano reso necessario cancellare dall’agenda papale il tradizionale incontro col clero di Roma di inizio Quaresima, in San Giovanni in Laterano. Una lettera del cardinale Vallini di qualche settimana fa annunciava infatti che l’appuntamento sarebbe stato di carattere “penitenziale”, presieduto dal vescovo Angelo De Donatis.

Ma il Papa già si trovava questa mattina a Santa Maria Maggiore per affidare, come ormai consolidata tradizione, il suo viaggio apostolico alla Salus Populi Romani. E il ragionamento che avrà fatto probabilmente sarà stato: meglio riposare prima di affrontare 12 ore di volo o salutare i ‘miei’ sacerdoti riuniti a sette minuti da lì? 

Ecco che il Papa ha quindi fatto ingresso in basilica, a metà mattina, tra gli applausi e lo stupore generale. Stupore accresciuto nel vedere il Pontefice indossare la stola viola, sedersi e confessare alcuni tra i presenti. Seppur il tempo breve, Francesco ha poi voluto condividere con tutti i sacerdoti alcune riflessioni – naturalmente a braccio – per aiutarli nel loro ministero pastorale. A cominciare da alcune indicazioni su come comportarsi nel confessionale. Tema molto caro al Papa.

Come ai cappuccini nella Messa di martedì scorso, Bergoglio ha chiesto dunque ai preti della Capitale di “non bastonare la gente”, ma di “accarezzare, come ci accarezza Dio” o “come si fa in ospedale, che se sa accarezzare la suorina infermiera o il dottore buono, le ferite non fanno male, no?”. Ancor di più “la carezza della parola di un prete fa tanto bene, tanto bene!”, ha assicurato il Pontefice,  “fa miracoli, eh?”. 

In questa prospettiva, l’Anno della Misericordia in corso è a tutti gli effetti “una grazia”. “Non è stata una cosa che ho pensato: ‘Farò questo’. No!”, ha spiegato il Papa, “è una cosa che viene da Paolo VI, e poi San Giovanni Paolo II con tre pilastri forti: la Dives in Misericordia, la canonizzazione di Faustina e la festa della Divina Misericordia, nell’ottava di Pasqua! È un messaggio che viene, viene, viene … Papa Benedetto, anche: con quanta tenerezza, in due o tre catechesi ne ha parlato”.

Così è nata l’intuizione di un Anno Santo dedicato alla misericordia. “Un giorno – ha rivelato Papa Francesco – parlando fraternamente, in un’udienza di tabella, con monsignor Fisichella ho detto: ‘Ma, questo della misericordia, vedo che è un filo che viene da lontano, nella Chiesa. Si potrebbe fare un Giubileo sulla misericordia?’. La prima volta che l’ho detto, così, perché è uscito da me. Ma è il Signore che lo ha fatto”. E “se il Signore vuole un Giubileo della misericordia, è perché ci sia misericordia, nella Chiesa, perché si perdonino i peccati”.

E magari perché tutti i sacerdoti ricordino che non sono “principi”, né “padroni”, bensì “servitori della gente”. “Se il Signore ci ha dato questa missione è proprio per andare ad aiutare la gente, con umiltà e misericordia” ha ribadito il Papa e, rivolgendosi direttamente ad ognuno dei presenti, ha aggiunto: “Oggi, quando ho visto tutti voi confessarvi lì ho sentito consolazione, perché una delle grazie più belle in un presbiterio è quando i presbiteri si sentono peccatori, perché così possono perdonare meglio gli altri peccatori. È una grazia bella”.

Certo perdonare i peccati “non è facile”, ha ammesso Francesco, “perché la rigidità tante volte viene da noi che siamo rigidi o padroni…”. E’ “la malattia del clericalismo” che contagia un po’ tutti. “Tutti, eh? Anche io”, ha detto il Santo Padre, “tutti l’abbiamo, questo” e tutti “dobbiamo lottare… Tu sei padre, eh? Lascia crescere i figli. Sì, metti i limiti, ma come lo farebbe un padre”. Cioè con misericordia.

Misericordia che “è Gesù, è il Padre che ti ha mandato Gesù”. La misericordia è la certezza che Cristo “si è fatto carne”, “si è fatto peccato” – come diceva San Paolo in tono “più energico” – e “ha scelto me peccatore. Lui sceglie i peccatori!”. Questo – ha osservato il Vescovo di Roma “è tanto bello”. Perciò – ha ammonito – se tu sacerdote “non credi che Dio è venuto in carne, sei l’anticristo: e questo non lo dico io, lo dice l’apostolo Giovanni”. 

La misericordia è dunque la bussola che deve orientare il servizio di ogni sacerdote. “Non è manica larga, no!”, ha precisato il Papa, “è amore, è abbraccio di padre, è tenerezza, è capacità di capire, di mettersi nelle scarpe dell’altro”. Significa essere “generosi nel perdono”, “capire i diversi linguaggi” e “i gesti della gente”. 

Perché c’è il linguaggio delle parole, ma anche il linguaggio dei gesti. Ad esempio, ha spiegato il Papa, “quando una persona viene al confessionale, è perché sente qualcosa che non sta bene, vorrebbe cambiare o chiedere perdono, ma non sa come dirlo e diventa muto. ‘Ah, se non parli non posso darti l’assoluzione!’. No. Ha parlato con il gesto di venire, e quando una persona viene è perché non vuole, non vorrebbe fare lo stesso un’altra volta. ‘Mi prometti di non farlo?’. No, è il gesto. Alle volte lo dicono: ‘Vorrei non farlo più’, ma a volte non riescono a dirlo perché diventano muti, davanti … ma ha fatto, lo ha detto con i gesti. E se una persona  dice: ‘Io non posso promettere questo’, perché è in una situazione irreversibile, c’è un principio morale: ad impossibilia nemo tenetur (nessuno è tenuto a fare cose impossibili)”. 

Bisogna, però, cercare sempre il modo per perdonare, “come San Leopoldo che era un campione, perché sempre cercava come perdonare”, o come quell’amico cappuccino, confessore a Buenos Aires – già citato nella Messa di martedì – “che ha la coda lì, sempre, preti, gente, ricchi, poveri, tutti… poverino, tutta la giornata lì”. “Un gran perdonatore lui”, ha detto Francesco. “E una volta, parlando, mi ha detto: ‘Ma senti, io sento lo scrupolo di perdonare troppo’. Gli ho detto: ‘Cosa fai, Luigi, quando tu perdoni troppo?’. ‘Ma, io vado in cappella, davanti al tabernacolo e dico: ‘Signore, perdonami, ho perdonato troppo! Ma sei stato Tu a darmi il cattivo esempio!’”. 

L’invito perciò è chiaro: “Siate misericordiosi come il Padre, grandi perdonatori”. Di qui anche la gratitudine “per il lavoro che fate nella diocesi, perché io credo che quest’anno ci saranno gli straordinari che non vi saranno pagati! Ma il Signore ci dia la gioia di avere gli straordinari di lavoro per essere misericordiosi come il Padre”.

Ultima udienza anno 2015

 

Pope Francis kisses a baby handed to him as he is driven through the crowd during his general audience, in St. Peter's Square, at the Vatican, Wednesday, March 27, 2013. (AP Photo/Andrew Medichini)

La solennità del Natale, appena trascorsa, ha indotto papa Francesco a dedicare l’ultima Udienza Generale dell’anno al tema dell’infanzia. In questi giorni molte famiglie nel mondo espongono Gesù Bambino nel presepe, “portando avanti questa bella tradizione che risale a san Francesco d’Assisi e che mantiene vivo nei nostri cuori il mistero di Dio che si fa uomo”, ha sottolineato il Pontefice.

Tra i santi che hanno coltivato la devozione a Gesù Bambino, il Papa ha citato Teresa di Lisieux che, non a caso, diventando monaca carmelitana, scelse di chiamarsi “Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo”.

La santa di Lisieux, diventata poi Dottore della Chiesa, “ha saputo vivere e testimoniare quell’’infanzia spirituale’ che si assimila proprio meditando, alla scuola della Vergine Maria, l’umiltà di Dio che per noi si è fatto piccolo”. Per noi che siamo sovente “orgogliosi” e “pieni di vanità”, scoprire un Dio che è “umile e si fa bambino”, è un “mistero grande” ma “bello”, ha aggiunto il Papa.

“C’è stato un tempo in cui – ha proseguito Francesco – nella Persona divino-umana di Cristo, Dio è stato un bambino, e questo deve avere un suo significato peculiare per la nostra fede”, non meno della sua morte in croce e resurrezione, che pure sono “la massima espressione del suo amore redentore”.

L’infanzia di Gesù è un periodo di cui storicamente “non conosciamo nulla”, ad eccezione di indicazioni come “l’imposizione del nome dopo otto giorni dalla sua nascita”, “la presentazione al Tempio (cfr Lc 2,21-28)”, la “visita dei Magi con la conseguente fuga in Egitto (cfr Mt 2,1-23)”, fino ad arrivare al pellegrinaggio della Sacra Famiglia al Tempio di Gerusalemme. Ciononostante, ha osservato il Papa, “per crescere nella fede avremmo bisogno di contemplare più spesso Gesù Bambino”.

Sebbene i Vangeli narrino poco dell’infanzia di Gesù, “possiamo imparare molto da Lui se guardiamo alla vita dei bambini”, ha detto il Santo Padre.

Un dato facilmente intuibile è che tutti i bambini “vogliono la nostra attenzione” ed “hanno bisogno di sentirsi protetti” e Gesù Bambino, in questo, non fa eccezione: lui che è Dio, ci richiama alla nostra “responsabilità di proteggerlo”.

Gesù desidera “stare tra le nostre braccia, desidera essere accudito e poter fissare il suo sguardo nel nostro”, ha commentato il Pontefice. Come tutti i bambini, poi, anche il piccolo Gesù va fatto “sorridere”, per “dimostrargli il nostro amore e la nostra gioia perché Lui è in mezzo a noi”.

C’è poi la dimensione ludica: giocare con un bambino “significa abbandonare la nostra logica per entrare nella sua”; per farlo divertire “è necessario capire cosa piace a lui”, evitando di “essere egoisti e far fare loro le cose che piacciono a noi”, ha sottolineato il Papa.

“Davanti a Gesù – ha spiegato – siamo chiamati ad abbandonare la nostra pretesa di autonomia, per accogliere invece la vera forma di libertà, che consiste nel conoscere chi abbiamo dinanzi e servirlo”.

Stringendo tra le nostre braccia il Bambino Gesù, ci mettiamo dunque “al suo servizio”, scoprendo in Lui una “fonte di amore e di serenità”.

In conclusione, Francesco ha proposto a tutti i fedeli di recarsi al proprio presepe, baciare Gesù Bambino e dirgli: “Gesù, io voglio essere umile come te, umile come Dio”.

Il Papa apre il Giubileo: “Facciamo nostra la misericordia del buon samaritano”

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Due ante in oro e bronzo che si spalancano e nel mondo si diffonde la misericordia di Dio. Il Papa ha aperto la Porta Santa della Basilica di San Pietro. È iniziato il Giubileo! Il primo Anno Santo ‘tematico’ della storia della Chiesa; il primo preceduto dall’apertura di un’altra Porta Santa, quella semplice in legno e mattoni della cattedrale di Bangui; il primo Giubileo globale che non si concentrerà solo a Roma ma coinvolgerà le diocesi del mondo.

L’apertura della Porta Santa. Insieme a Benedetto XVI

Francesco compie il rito al termine della Santa Messa, intorno alle 11, vegliato alle sue spalle dal Papa emerito Benedetto XVI, seduto nell’atrio, che ha voluto accompagnare il suo successore in questo passo importante e travagliato nei mesi di preparazione da scandali e paure. Bergoglio lo abbraccia con affetto, poi si dirige verso il grande portone in bronzo davanti al quale si ferma per alcuni istanti. E la mente non può non tornare all’immagine di un Giovanni Paolo II chino e sofferente che accompagnava la Chiesa nel terzo millennio con il Giubileo del 2000.

Papa Francesco pronuncia la formula: “Per la tua grande Misericordia entrerò nella Tua casa Signore, apritemi le porte della giustizia!”. Poi spinge un po’ a stento il muro della porta e ne spalanca le ante. Prima di varcarla, il Successore di Pietro sosta in preghiera, in piedi, sulla soglia. Entra poi solo, per primo, in Basilica, reggendo la croce astile, mentre il coro canta il Te Deum laudamus. Seguono Ratzinger sorretto da mons. Georg Ganswein, dai concelebranti e da alcuni rappresentanti di sacerdoti, religiosi, religiose e fedeli laici che processionalmente si recano all’Altare della Confessione, dove si svolge il rito conclusivo della Messa.

50mila fedeli in piazza in preghiera. Anche musulmani. 2.500 militari

Intanto in una piazza San Pietro bagnata da una pioggia leggera, i fedeli – 50mila, secondo le prime stime – cantano e pregano per il Santo Padre e per questo Anno straordinario appena avviato. Lo hanno fatto dalle 6.30 di questa mattina, orario di apertura dei varchi, in una piazza blindata da 2.500 militari, mille agenti, 900 vigili volontari. La paura degli attentati, la lentezza dei controlli, la fatica mattutina vengono dopo; prima c’è un rendimento di grazie a Dio per la sua misericordia. Abbracciati dal colonnato del Bernini, sotto l’occhio di 250 telecamere, i pellegrini pregano quindi il rosario in attesa di varcare la Porta Santa. Insieme a loro ci sono anche alcuni musulmani appartenenti al Co-mai, le comunità del mondo arabo in Italia che hanno lanciato oggi l’hashtag #TuttiUnitiperilGiubileo, per fare gli auguri a Francesco e a tutti i cristiani, condannando ogni forma di terrorismo e violenza.

La Messa nel segno del Vaticano II

La Messa è iniziata alle 9.23 con la processione dei sacerdoti che portano l’Evangeliario della Misericordia. Seguono i vescovi e i cardinali in bianco e, dopo due minuti, entra Papa Francesco. La celebrazione si apre nel segno del Concilio Vaticano II, essendone il 50° anniversario della chiusura; si leggono quindi alcuni brani delle quattro costituzioni (Dei Verbum, Lumen gentium, Sacrosanctum concilium e Gaudium et spes), e due brani tratti rispettivamente dalla Unitatis redintegratio sull’ecumenismo e dalla Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. Alla celebrazione sono presenti anche il presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella con la figlia Laura, e il premier Matteo Renzi con la moglie. Alla sinistra dell’altare papale, anche una fila di imam.

L’omelia del Papa“Anteporre la misericordia al giudizio” 

Storia e fede si intrecciano poi nell’omelia del Santo Padre, pronunciata prima di compiere il gesto “tanto semplice quanto fortemente simbolico” dell’apertura della Porta Santa, che “pone in primo piano il primato della grazia”. Francesco riflette anzitutto sulla figura di Maria, nella Solennità dell’Immacolata Concezione di oggi, a partire da quel “Rallegrati” che l’arcangelo Gabriele rivolge a “una giovane ragazza, sorpresa e turbata”, chiamata tuttavia “a gioire per quanto il Signore ha compiuto in lei”.  “Quando Gabriele entra nella sua casa, anche il mistero più profondo, che va oltre ogni capacità della ragione, diventa per lei motivo di gioia, di fede e di abbandono alla parola che le viene rivelata”, dice il Papa. “La pienezza della grazia è in grado di trasformare il cuore, e lo rende capace di compiere un atto talmente grande da cambiare la storia dell’umanità”.

Questa festa dell’Immacolata esprime quindi “la grandezza dell’amore di Dio”, che non solo “perdona il peccato”, ma in Maria “giunge fino a prevenire la colpa originaria, che ogni uomo porta con sé entrando in questo mondo”. È quindi “l’amore di Dio che previene, che anticipa e che salva”, sottolinea il Pontefice. Un amore che salva nonostante la quotidiana “tentazione della disobbedienza” che si esprime “nel voler progettare la nostra vita indipendentemente dalla volontà di Dio”.

“È questa – afferma il Papa – l’inimicizia che attenta continuamente la vita degli uomini per contrapporli al disegno di Dio. Eppure – aggiunge – anche la storia del peccato è comprensibile solo alla luce dell’amore che perdona. Se tutto rimanesse relegato al peccato saremmo i più disperati tra le creature, mentre la promessa della vittoria dell’amore di Cristo rinchiude tutto nella misericordia del Padre”.

Per questo l’Anno Santo Straordinario è un “dono di grazia”. “Entrare per quella Porta – sottolinea il Papa – significa scoprire la profondità della misericordia del Padre che tutti accoglie e ad ognuno va incontro personalmente”. Sarà dunque un Anno “in cui crescere nella convinzione della misericordia”: “Quanto torto viene fatto a Dio e alla sua grazia quando si afferma anzitutto che i peccati sono puniti dal suo giudizio, senza anteporre invece che sono perdonati dalla sua misericordia!”, esclama Francesco. Bisogna invece “anteporre la misericordia al giudizio” aggiunge, “e in ogni caso il giudizio di Dio sarà sempre nella luce della sua misericordia”. Esorta quindi ad abbandonare “ogni forma di paura e di timore, perché non si addice a chi è amato”. “Viviamo, piuttosto, la gioia dell’incontro con la grazia che tutto trasforma”.

Il Vaticano II: “Un incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo”

In conclusione un ricordo del Vaticano II, “un’altra porta che, cinquant’anni fa, i Padri del Concilio spalancarono verso il mondo”. Una scadenza – osserva Bergoglio – che “non può essere ricordata solo per la ricchezza dei documenti prodotti, che fino ai nostri giorni permettono di verificare il grande progresso compiuto nella fede”. In primo luogo, il Concilio è stato “un vero incontro tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo”, che, segnato dalla forza dello Spirito, “spingeva la sua Chiesa ad uscire dalle secche che per molti anni l’avevano rinchiusa in sé stessa, per riprendere con entusiasmo il cammino missionario”. “Era la ripresa di un percorso per andare incontro ad ogni uomo là dove vive: nella sua città, nella sua casa, nel luogo di lavoro… – dice il Santo Padre – dovunque c’è una persona, là la Chiesa è chiamata a raggiungerla per portare la gioia del Vangelo”.

Dunque “una spinta missionaria”, che dopo questi decenni la Chiesa del Papa argentino riprende “con la stessa forza e lo stesso entusiasmo”, con uno spirito che è quello del buon Samaritano. Uno spirito, cioè, di misericordia che Francesco auspica possa essere la missione di tutti i cristiani in questi dodici mesi di grazia: “Attraversare oggi la Porta Santa ci impegni a fare nostra la misericordia del buon samaritano”.

Schönborn: “Finalità del Sinodo è la missione. Parliamo in modo più personale e meno astratto!”

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“Il Sinodo dei Vescovi è certamente solo uno dei luoghi di interpretazione e di applicazione delle riforme volute dal Concilio. Tutta la ricca varietà di espressioni di vita della Chiesa contribuisce al rinnovamento desiderato dal Concilio, a una sua ermeneutica più ampia”. Lo ha affermato il cardinale Cristoph Schönborn, arcivescovo di Vienna e presidente della Conferenza episcopale dell’Austria, che questa mattina nell’Aula Paolo VI, davanti al Papa, ha tenuto la relazione commemorativa dei 50 anni dell’istituzione del Sinodo di vescovi soffermandosi principalmente sul dibattito teologico e pubblico scaturito in seguito ai “due Sinodi” attuali e correnti.

“Il grande interesse, a livello mondiale, che il Sinodo attuale ha suscitato – ha esordito il cardinale – non solo mostra come il tema matrimonio e famiglia sia intensamente sentito da molte persone, ben al di là dell’orizzonte della Chiesa cattolica. Mostra anche come sia vitale – ha spiegato – dopo cinquant’anni, l’istituzione del Sinodo dei Vescovi, di cui il Santo Papa Giovanni Paolo II poteva dire che era germogliato nel fertile terreno del Concilio Vaticano II”. Pertanto, missione, testimonianza e discernimento sono per Schönborn le tre finalità che il Sinodo dei vescovi deve perseguire, la cui idea ispirata dallo Spirito Santo prende forma dal Sinodo originario di Gerusalemme che ha reso possibile la dinamica di una Chiesa missionaria che si pone in uscita nel segno di Pietro.

Realizzando una propria ed organica esegesi dell’istituzione voluta dal Beato Paolo VI  e creata con la promulgazione del Motu Proprio Apostolica Sollicitudo del 15 settembre 1965, il cardinale ha affermato che il Sinodo dei vescovi nella sua ampia ermeneutica va inteso come uno di quei luoghi di interpretazione e di applicazione delle riforme volute dal Concilio, teso a promuovere un rinnovamento e un’apertura della Chiesa universale davanti al mondo intero. La decisione del Beato Montini con la riuscita del cammino sinodale affondano le radici nella Chiesa primitiva, più precisamente nel metodo che Pietro usa nel raccontare le azioni di Dio, ha detto. “Possiamo anche dire: egli riferisce ciò che ha sperimentato come agire di Dio. Da ciò egli tira le conseguenze”, ha sottolineato il Presidente della Conferenza episcopale dell’Austria commentando che il Sinodo dei vescovi non si limita al compimento di una riflessione teologica, ma è un’attenta osservazione e un ascolto dell’agire di Dio.

Il Sinodo dei Vescovi, promuove in modo adeguato la collegialità vescovile, cum et sub Petro, nella responsabilità per la Chiesa, ha spiegato l’arcivescovo di Vienna riproponendo il contenuto della lectio magistralis sugli scopi e i metodi del Sinodo che l’allora cardinale Ratzinger tenne nel 1983, quando nonostante l’assise vescovile esistesse da un solo ventennio numerose erano le domande che la Chiesa si poneva. La questione del metodo, metodos, – su cui si è interrogato lo stesso Papa Francesco nella Lettera indirizzata al cardinale Baldisseri il 1° aprile 2014 – è uno dei momenti di riflessione principali nel cammino sinodale che si inserisce nella natura etimologica della parola synodos, letteralmente “camminare insieme”, al fine di sottolineare la natura collegiale dell’assise.

Il cardinale Schönborn per considerare questa relazione intrinseca di synodos e methodos ha pertanto proposto di rivolgere lo sguardo al “Sinodo d’origine”, al modello originario dei sinodi, il cosiddetto “Concilio degli Apostoli” di Gerusalemme. “Anche se mi è chiaro – ha aggiunto  – che il Concilio di Gerusalemme non sia stato né un concilio né un sinodo nel senso più tardo dei termini, vale tuttavia la pena ritornare costantemente a questo inizio. Mi sembra, infatti, che proprio il metodo allora applicato sia indicativo per il cammino ulteriore del Sinodo dei Vescovi. E possiamo a posteriori certamente affermare: questo primo sinodo ebbe una tale importanza, che ancora oggi viviamo dai suoi frutti”.

Il cammino cristiano si nutre pertanto di conflitti e di discussioni per il suo bene, non è un caso che i principali concili della storia, come il “Concilio degli Apostoli” di Gerusalemme al quale l’arcivescovo di Vienna ha volto lo sguardo e la memoria, siano nati nel turbine di idee diverse e di posizioni opposte: Papa Francesco introducendo i lavori del Sinodo straordinario dei vescovi, lo scorso ottobre, esortò i padri sinodali e i presenti tutti a lavorare nel segno della Parresia, per parlare chiaro senza inibizioni e pregiudizi. Non è dunque un’attitudine moderna la pratica dello scontro: lo stesso termine adoperato dal Papa, parresia, si riferisce all’ascoltare con umiltà, che leggiamo nella narrazione dagli Atti degli Apostoli.

“Personalmente mi sarei molto preoccupato e rattristato se non ci fossero state queste tentazioni (il Papa ne aveva nominate cinque) e queste animate discussioni: questo movimento degli spiriti, come lo chiamava Sant’Ignazio (EE, 6), se tutti fossero stati d’accordo o taciturni in una falsa e quietista pace», ha confessato il porporato. “Invece – ha proseguito – ho visto e ho ascoltato – con gioia e riconoscenza – discorsi e interventi pieni di fede, di zelo pastorale e dottrinale, di saggezza, di franchezza, di coraggio e di parresia. E ho sentito che è stato messo davanti ai propri occhi il bene della Chiesa, delle famiglie e la ‘suprema lex’, la ‘salus animarum’ (cf. Can. 1752)”.

Concentrandosi dunque sulle critiche che sono state apportate ai lavori, alle riflessioni e allo studio dei Padri sinodali e all’intenso dibattito scaturito da talune dichiarazioni teologiche su matrimonio e famiglia, l’arcivescovo ha inoltre sottolineato la grandezza di questi “conflitti di confronto” che sono da considerarsi nella natura di uno “sviluppo organico” della dottrina della Chiesa. “Così il dibattito teologico degli ultimi mesi – ha sottolineato il porporato – è diventato un contributo importante per il cammino sinodale, come pure l’opera del Vaticano II non sarebbe pensabile senza il grande lavoro dei teologi nei decenni prima e durante il Concilio. Che a volte tali dibattiti teologici fossero condotti, come accade ancora oggi, con un certo accanimento, con inasprimento e non sempre nello spirito del reciproco ascolto e dello sforzo di capire i motivi dell’altro, fa parte delle classiche tentazioni di cui Papa Francesco parlò alla fine dell’assemblea straordinaria del Sinodo”.

Infine, esortando i padri conciliari a ri-considerare il Concilio di Gerusalemme, Schönborn ha chiesto di parlare in modo meno astratto e distaccato e più personale per testimoniare la propria esperienza di missione, perché la Chiesa è nata per il popolo di Dio e mostrarsi più vicini ad esso metterebbe in pratica la finalità più intima del Sinodo: la missione. “È questo che si aspettano i nostri fedeli!”, ha concluso il cardinale sottolineando la grazia e l’essenzialità che in questi 50 anni ha rappresentato il Sinodo dei vescovi suggerito dallo Spirito Santo al Beato Paolo VI.

Alencherry: “Meglio una Chiesa ammaccata che però esce per strada…”

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È stato il cardinale indiano George Alencherry a tenere, questa mattina, la meditazione quotidiana prima dell’inizio della terza Congregazione generale della XIV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Alla presenza di Papa Francesco, il porporato, arcivescovo maggiore di Ernakulam-Angamaly dei Siro-Malabaresi e presidente del Sinodo della Chiesa Siro-Malabarese, ha commentato i brani biblici della liturgia odierna, a partire dalla lettura di Geremia(Ger 22, 3) in cui il profeta annuncia alla famiglia reale di Giuda le rovine che potrebbero cadere sul Regno, se il Re non avesse reso giustizia alla giustizia e salvato gli oppressi dalla mano dell’oppressore.

Un brano, che “ci offre un messaggio ben applicabile per l’obiettivo delle nostre deliberazioni sinodali sulla famiglia”, ha detto Alencherry. In particolare, ha sottolineato, “le parole del profeta possono riferirsi ai governanti e ai leader di ogni tempo e anche alle persone da loro governate. In molti paesi del mondo le persone vengono private della giustizia a causa della promozione di individualismo, dell’edonismo e oppresse da valori secolarizzati e linee di azione”.

In tal contesto, il cardinale si è domandato “se i vertici della Chiesa si siano fatti avanti con un ruolo profetico come quello di Geremia, per sostenere il popolo con la Parola di Dio e la testimonianza personale”, oppure no. Geremia – ha proseguito – soffrì la solitudine per il suo ruolo profetico, così anche “i pastori della Chiesa del presente sono chiamati ad assumere nella loro vita un ruolo profetico della sofferenza e della kenosi, simile a quella di Geremia”.

Una solitudine che si è tradotta nei secoli successivi nel celibato sacerdotale: “un segno” in epoca cristiana, ha evidenziato il prelato indiano. “Geremia non ha sperimentato il profondo amore di una sposa, per la sposa, Israele, ha respinto l’amore del Signore. Egli deve sperimentare la solitudine, come il Signore sperimenta la solitudine”.

Ciò non significa che la Chiesa debba rimanere “confinata” al proprio interno. Anzi – ha affermato Alencherry, ribadendo l’invito di Papa Francesco nella Evangelii Gaudium – meglio una Chiesa “ammaccata, danneggiata e sporca perché è stata fuori per le strade, piuttosto che una Chiesa sana ma aggrappata alle proprie sicurezze”.

“Più che dalla paura di andare fuori strada – ha quindi concluso il porporato – la mia speranza è che saremo mossi dalla paura di rimanere rinchiusi all’interno di strutture che ci danno un falso senso di sicurezza, entro regole che ci fanno i giudici duri, entro le abitudini che ci fanno sentire al sicuro, mentre alla nostra porta ci sono persone che stanno morendo di fame e Gesù non si stanca di dire a noi: Date loro voi stessi da mangiare (Mc 6,37)“.

L’attenzione alla famiglia nel magistero di Paolo VI

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Una Messa nella sua terra natale, nel Santuario delle Grazie, a Brescia, dove il novello prete Giovanni Battista Montini celebrò la prima Eucaristia, il 30 maggio 1920. E una Messa nel luogo simbolo della Chiesa che Paolo VI guidò per diciotto anni, ossia nella basilica di San Pietro.

Oggi, 28 settembre 2015, nel giorno in cui si celebra la memoria di Paolo VI, beatificato da papa Francesco il 19 ottobre di un anno fa, sono questi i due eventi principali in suo onore.

Nell’omelia della Messa celebrata a San Pietro, il card. Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, ha ricordato i passaggi della vita di Montini legati indissolubilmente a questo luogo. È qui che “il beato Pontefice venne ordinato vescovo il 1° novembre 1954 e ricevette la berretta cardinalizia da san Giovanni XXIII. Qui partecipò, quale arcivescovo di Milano, alle prime sessioni del concilio Vaticano II e in seguito, come successore di Pietro, le presiedette, facendo sentire il suo autorevole magistero”.

Viceversa, anche il cammino della Chiesa è legato indissolubilmente alla figura di Paolo VI. Il card. Parolin – come riporta l’Osservatore Romano – ha  l’apporto dato dalla “delicata attenzione” di papa Montini “per le periferie esistenziali in ogni latitudine del pianeta”, nonché “la sua capacità di dar voce agli ultimi e ai lontani e il richiamo nel suo testamento spirituale a una Chiesa povera, cioè libera”. Ma anche a una Chiesa attenta alla famiglia e alla paternità e maternità “responsabili”.

Paolo VI fu Vescovo di Roma in un periodo storico cruciale, segnato dalla guerra fredda e da cambiamenti culturali che investirono gran parte del pianeta. In tale contesto, egli si prodigò per comunicare il messaggio di salvezza della Chiesa e per la salvaguardia della pace. Lo testimonia la proposta d’arbitrato nel sanguinoso conflitto del Vietnam, iniziato nel 1966, “che – afferma il porporato -, se fosse stata accolta avrebbe risparmiato tante sofferenze”.

L’impegno di Paolo VI a favore della pace è simboleggiato dalle parole che egli pronunciò al Palazzo di Vetro dell’Onu, il 4 ottobre 1965: “Non più la guerra, non più la guerra”. Lo ha ricordato il card. Parolin, di ritorno dal viaggio apostolico di papa Francesco in America, durante il quale anche lui ha parlato alle Nazioni Unite.

E ha inoltre rammentato, il segretario di Stato della Santa Sede, il passaggio finale del discorso di Paolo VI al Palazzo di Vetro, rintracciabile anche nella sua Enciclica Populorum progressio: “Dobbiamo abituarci a pensare in maniera nuova l’uomo; in maniera nuova la convivenza dell’umanità, in maniera nuova le vie della storia e i destini del mondo secondo le parole di san Paolo: rivestire l’uomo nuovo creato a immagine di Dio nella giustizia e santità della verità (…). Mai come oggi, in un’epoca di tanto progresso umano si è reso necessario l’appello alla coscienza morale dell’uomo”. Con amarezza il card. Parolin rileva l’attualità di queste considerazioni, giacché i conflitti armati continuano a insanguinare diverse regioni del pianeta e i diritti umani vengono costantemente calpestati.

Umanità che, insieme alla Chiesa, fu sempre la preoccupazione preminente di papa Montini. “Alla vigilia del Sinodo dei vescovi sulla famiglia, mi sembra di dover cogliere nel magistero del beato Paolo VI un’attenzione profetica per l’umanità, con particolare attenzione alla famiglia, al matrimonio e ai coniugi stessi, uomo e donna, nella luce dell’amore e dell’apertura alla vita, in un’indissolubilità che proviene dalla sacralità stessa della persona e da un atto libero e responsabile degli sposi”, afferma il card. Parolin. “La Chiesa attende una sapienziale e pastorale riflessione per offrire ai coniugi e alle famiglie una parola di concreta speranza nella verità e nell’attenzione evangelica, che sappia essere segno dell’amore di Colui che è l’autore dell’amore sponsale – conclude il segretario di Stato -. Amore che è condivisione, reciproca attenzione, apertura alla vita, dignità donata e ricevuta”.

In Terra Santa, l’Assemblea Plenaria della CCEE

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È con il canto del Veni Creator Spiritus che l’annuale Assemblea Plenaria del Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) ha preso avvio, oggi pomeriggio, in Terra Santa presso la Domus Galilaeae, il Centro di formazione del Cammino Neocatecumenale sul Monte delle Beatitudini che sovrasta il Lago di Tiberiade in Galilea.

L’incontro che vede la partecipazione dei Presidenti di tutte le Conferenze episcopali d’Europa, della grande Europa, quella che va dall’Atlantico agli Urali, dal Mediterraneo ai Paesi Scandinavi, si svolge nella terra in cui è nato e si è sviluppato il cristianesimo su invito dell’Assemblea degli Ordinari Cattolici di Terra Santa e del suo Presidente, il Patriarca latino di Gerusalemme, Fouad Twal.

Fino a mercoledì 16 settembre, gli oltre quaranta vescovi giunti in Galilea, si confronteranno sulle sfide poste alla Chiesa in Europa, compiendo un incontro-pellegrinaggio che li porterà a meditare sulla Persona di Gesù in vari santuari della Galilea fino a Gerusalemme e Betlemme in Palestina.

“Riscoprire la sorgente della nostra identità come popolo di Dio e della nostra missione come successori degli Apostoli, inviati a testimoniare l’incontro con il volto della Misericordia del Padre che è Gesù stesso”, è il motivo con il quale il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest in Ungheria e Presidente del CCEE, spiega la presenza dei vescovi europei in Terra Santa aprendo i lavori dell’Assemblea questo pomeriggio. “Ci incontriamo quindi in pellegrinaggio, per riaffermare il nostro “sì” al Signore Gesù come Vescovi europei”, ha proseguito Erdő. Nella sua introduzione, il Presidente del CCEE ha toccato numerosi temi che saranno oggetto di discussione dell’assise episcopale.

Successivamente il Nunzio Apostolico in Israele, il vescovo italiano Giuseppe Lazzarotto, ha dato lettura del messaggio che papa Francesco ha inviato all’episcopato europeo. Ha poi salutato la scelta dei vescovi europei di svolgere la loro assemblea in Terra Santa, vedendo in essa un’anticipazione “di quello che il Papa vuole per la prossima giornata mondiale della Pace: Vinci l’indifferenza, conquista la pace”.

I lavori sono poi proseguiti a porte chiuse con il saluto del Cardinale Marc Ouellet, Prefetto della Congregazione per i vescovi, che ha ricordato come “celebrare quest’annuale Assemblea in Terra Santa non è una scelta come un’altra. Siamo venuti in pellegrinaggio perché possiamo dire con il Salmista: Qui tutti siamo nati (Salmo 87): ogni cristiano è nato qui!”. Il cardinale canadese toccando poi la questione dei flussi migratori che dai Paesi del Mediteranno meridionale e orientale giungono verso i Paesi dell’Unione Europea, la presenza dei cristiani in Terra Santa e il loro contributo di testimonianza in questo “microcosmo del nostro mondo globalizzato”, ha dato il tono dell’incontro: “tutti siamo nella stessa barca! Non dunque un semplice guardarci a vicenda, ma un guardare uniti verso il futuro, partecipi gli uni del destino degli altri, certi che Dio continuamente conduce la sua Chiesa e la apre a nuovi orizzonti“, ha concluso Ouellet.

La sessione pomeridiana dei lavori si è poi conclusa con alcuni adempimenti statutari, il rapporto delle attività del Consiglio da parte del suo Segretario generale, mons. Duarte da Cunha, e la celebrazione dell’eucarestia nella chiesa della Domus Galilaeae, presieduta dal Cardinale Ouellet.

Sabato 12 settembre i lavori prevedono i rapporti delle singole Conferenze episcopali, una sessione speciale sulla figura di Gesù, intitolata Gesù Cristo: ieri, oggi e domani, che vedrà l’intervento di P. Jamal Khader, teologo e rettore del Seminario patriarcale di Beit Jala, la messa a Cafarnao (il luogo della chiamata di Pietro) per concludersi con l’incontro con le famiglie e la veglia di preghiera per la famiglia e il prossimo Sinodo dei Vescovi, in programma ad ottobre in Vaticano, trasmessa live streaming dalla Basilica dell’Annunciazione a Nazareth a partire dalle ore 20.15.

Apriamoci alle sorprese dello Spirito Santo

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Aprirsi alle sorprese dello Spirito Santo, avere “coraggio apostolico” e non indulgere in una vita cristiana che sia un “museo di ricordi”. Su questi temi si è soffermato papa Francesco nell’omelia di oggi alla Casa Santa Marta.

È proprio grazie allo Spirito Santo, che i greci, gli ebrei e i pagani si convertirono al cristianesimo (cfr. Ap 11,19-26). In quel primo secolo era ancora accesa la disputa se predicare il Vangelo soltanto agli ebrei, tuttavia, quando Barnaba giunge ad Antiochia, si rallegra nel vedere tante conversioni tra i pagani e riconosce in esse l’opera di Dio.

Anche nell’Antico Testamento (cfr. Is 60), emerge la perplessità di quanti “non capivano che Dio è il Dio delle novità” e che “lo Spirito Santo è venuto proprio per questo, per rinnovarci e continuamente fa questo lavoro di rinnovarci”.

Il cambiamento, però, “dà un po’ di paura” ed effettivamente, ha osservato il Papa, non tutte le novità vengono da Dio. Tuttavia, sia in Barnaba che in Pietro, “c’è lo Spirito Santo che fa vedere la verità. Da noi soli non possiamo. Con la nostra intelligenza non possiamo”, ha sottolineato.

Anche studiando a menadito “tutta la Storia della Salvezza” o “tutta la Teologia”, è impossibile capire, senza lo Spirito Santo, colui che ci fa “conoscere la vita di Gesù”, che ci dice: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco e loro mi seguono”.

Come è possibile, dunque, riconoscere la voce di Gesù e l’azione dello Spirito Santo? Innanzitutto, è indispensabile pregare per discernere “in ogni tempo cosa dobbiamo fare”. La Chiesa stessa va avanti “con queste sorprese, con queste novità dello Spirito Santo”.

Pregando è possibile ottenere la grazia dello Spirito Santo, come capitò sia a Barnaba che a Pietro, il quale disse: “Ma chi sono io per negare qui il Battesimo?”. È proprio lo Spirito Santo che “non ci fa sbagliare”.

Scegliere, al contrario, la strada ‘umana’ e ‘più sicura’, è un’alternativa “di morte”. Meglio, dunque, “rischiare con la preghiera” e “con l’umiltà”, per accettare i cambiamenti che lo Spirito ci chiede.

Al momento dell’eucaristia, pertanto, il cristiano deve chiedere “la grazia dello Spirito Santo”, per non aver paura, quando lo Spirito “mi dice di fare un passo avanti”.

In conclusione, il Santo Padre ha invocato per tutti i fedeli il “coraggio apostolico di portare vita e non fare della nostra vita cristiana un museo di ricordi”.

Essere cristiano non è un po truccarsi l’anima, ma servire

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“Storia” di peccato e di grazia. E “servizio” agli altri o a sé stessi. Su questi “due tratti dell’identità del cristiano” si snoda l’omelia di Papa Francesco nella Messa a Santa Marta di oggi. La storia perché “il cristiano è uomo e donna di storia, perché non appartiene a se stesso, è inserito in un popolo, un popolo che cammina”, sottolinea.

“Non si può pensare in un egoismo cristiano, no, questo non va – ammonisce il Pontefice -. Il cristiano non è un uomo, una donna spirituale di laboratorio, è un uomo, è una donna spirituale inserita in un popolo, che ha una storia lunga e continua a camminare fino a che il Signore torni”.

San Paolo, San Pietro e tutti i primi discepoli “non annunziavano un Gesù senza storia: loro annunziavano Gesù nella storia del popolo, un popolo che Dio ha fatto camminare da secoli per arrivare alla pienezza dei tempi”.

Dio, infatti, si pone al fianco del suo popolo ed entra in questa “storia di grazia, ma anche storia di peccato”. “Quanti peccatori, quanti crimini”, esclama il Papa e, in riferimento alle letture della Liturgia odierna, aggiunge: “Anche oggi Paolo menziona il Re Davide, santo, ma prima di diventare santo è stato un grande peccatore. Un grande peccatore…”.

“La nostra storia deve assumere santi e peccatori”, afferma il Santo Padre. “E la mia storia personale, di ognuno, deve assumere il nostro peccato, il proprio peccato e la grazia del Signore che è con noi, accompagnandoci nel peccato per perdonare e accompagnandoci nella grazia”.

Dunque, “non c’è identità cristiana senza storia”, ribadisce Bergoglio. Non c’è neanche, però, senza servizio, perché proprio quello il più grande insegnamento che ci ha trasmesso Cristo: “Gesù lava i piedi ai discepoli invitandoci a fare come Lui: servire”.

Quindi, “l’identità cristiana è il servizio, non l’egoismo”, rimarca il Pontefice. “‘Ma padre, tutti siamo egoisti’. Ah sì? È un peccato, è un’abitudine dalla quale dobbiamo staccarci”. E dobbiamo anche “chiedere perdono, che il Signore ci converta”.

Francesco insiste: “Siamo chiamati al servizio”, perché “essere cristiano non è un’apparenza o anche una condotta sociale, non è un po’ truccarsi l’anima, perché sia un po’ più bella. Essere cristiano è fare quello che ha fatto Gesù: servire”.

Da cristiani, allora, farà bene porci oggi questa domanda: “Nel mio cuore cosa faccio di più? Mi faccio servire dagli altri, mi servo degli altri, della comunità, della parrocchia, della mia famiglia, dei miei amici o servo, sono al servizio di?”.

Città del Vaticano 30 Aprile 2015.