San Giovanni Battista de La Salle Sacerdote

San Giovanni Battista de La Salle

San Giovanni Battista de La Salle Sacerdote

Nasce a Reims il 30 aprile 1651 da genitori nobili, ma non ricchi, e con dieci figli. Si laurea in lettere e filosofia; è sacerdote nel 1678, e a Reims assume vari incarichi, collaborando anche all’attività delle scuole fondate da Adriano Nyel, un laico votato all’istruzione popolare. Scuole gestite però da maestri ignoranti e senza stimoli. E proprio dai maestri parte la sua opera. Riunisce quelli di Nyel in una casa comune, vive con loro, studia e li fa studiare, osserva metodi e organizzazione di altre scuole. Insgna un metodo e abolisce le lezioni in latino, introducendo in ogni disciplina la lingua francese. Nel 1680 nasce la comunità dei «Fratelli delle Scuole Cristiane». In genere non sono preti, vestono una tonaca nera con pettorina bianca, con un mantello contadino e gli zoccoli, e sotto la guida del La Salle aprono altre scuole. Nel 1687 hanno già un loro noviziato. Nel 1688 sono chiamati a insegnare a Parigi dove in un solo anno i loro allievi superano il migliaio. A causa di critiche e ostacoli esterni da Parigi dovrà portare la sua comunità nel paesino di Saint-Yon, presso Rouen, dove morirà il 7 aprile 1719.

Combatte l’ignoranza per tutta la vita, e molti combattono lui. Nato da genitori nobili, ma non ricchi, e con dieci figli, Giovanni Battista si laurea in lettere e filosofia; è sacerdote nel 1678, e a Reims assume vari incarichi, collaborando anche all’attività delle scuole fondate da Adriano Nyel, un laico votato all’istruzione popolare. Scuole che vanno male, però, soprattutto perché hanno maestri ignoranti e senza stimoli.
E di qui parte lui. Dai maestri. Riunisce quelli di Nyel in una casa comune, vive con loro, studia e li fa studiare, osserva metodi e organizzazione di altre scuole… Comunica a questi giovani raccogliticci la gioia dell’insegnamento, dell’aprire scuole; li appassiona a un metodo che da “ripetitori” li fa veri “insegnanti”, abolendo le lezioni in latino, e introducendo in ogni disciplina la viva lingua francese. Da quel primo nucleo ecco svilupparsi nel 1680 la comunità dei “Fratelli delle Scuole Cristiane”: il sodalizio degli educatori. In genere non sono preti (lui li vuole laici, vicini al mondo che devono istruire nella fede, nel sapere, nelle professioni); vestono una tonaca nera con pettorina bianca, con un mantello contadino e gli zoccoli, e sotto la guida del La Salle aprono altre scuole. Nel 1687 hanno già un loro noviziato. Nel 1688 sono chiamati a insegnare a Parigi dove in un solo anno i loro allievi superano il migliaio.
Poi cominciano le battaglie, e tutto sembra crollare. Il fondatore si trova via via attaccato dall’alto clero di Parigi, da vari parroci e dall’autorità civile, dai cattolici integrali e dai giansenisti, abbandonato da gente che credeva fedele, e più tardi anche esautorato. Lui in quei momenti si immerge – si inabissa, potremmo dire – nell’isolamento penitenziale, nella meditazione. Studia e si studia. Ma resiste, con la sua mitezza irreducibile. Da Parigi dovrà portare la sua comunità nel paesino di Saint-Yon, presso Rouen.
Però la semina continua a dare frutti: nascono le scuole per adulti, le scuole per maestri, gli istituti d’istruzione nelle carceri, i collegi “di istruzione civile a pagamento”: e i suoi libri, trattati e sillabari pilotano l’opera dei maestri. Nei momenti più desolati giunge a dubitare della propria vocazione per la scuola e si accusa di nuocere alla stessa opera. Ma intanto le dedica ogni energia, scrivendo e insegnando per il futuro dei Fratelli, che la fine del XX secolo troverà presenti e attivi ben oltre i confini della Francia e dell’Europa.
Quando muore nel piccolo centro di Saint-Yon, le sue case sono 23 e gli allievi diecimila. Ma per i funerali accade l’imprevedibile: trentamila persone si riversano nel paese per dargli l’ultimo saluto. Trentamila risposte a persecuzioni e tradimenti. Papa Leone XIII lo canonizzerà nell’anno 1900. E, cinquant’anni dopo, Pio XII lo proclamerà “patrono celeste presso Dio di tutti gli insegnanti”.

Beato Giuseppe Girotti

Beato Giuseppe Girotti

Beato Giuseppe Girotti

Era in fiamme l’Europa in quegli anni per la “grande guerra”. Ad Alba (Cuneo), tra vicolo Rossetti e la piazza dallo stesso nome, c’era spesso un gruppo di ragazzi che giovavano rumorosi. Uno di loro – quello che sembrava il loro leader – si chiamava Giuseppe Girotti. Gli amici lo chiamavano “Beppe”, in dialetto. Giocavano “da matti”, ma di tanto in tanto, Giuseppe alzava gli occhi a guardare la croce svettante sul campanile romanico del duomo vicino: là dentro, la presenza di Gesù lo attirava come una calamita. 

Presso l’altare del duomo, Beppe andava ogni giorno a servire la S. Messa al suo parroco, buono e austero, e ai sacerdoti che passavano a celebrare, anche prestissimo, quando su Alba non spuntava ancora il giorno. A servire la Messa, portava anche i suoi amici, coetanei o più piccoli, insegnava loro le cerimonie, come un piccolo apostolo della Liturgia.
Gli altri lo stimavano e gli volevano bene, perché aveva cuore buono e largo come un mare. Lui da parte sua amava tutti, ma quando c’era da difendere i più deboli, come i suoi fratellini Giovanni e Michele, sapeva “cazzottare” a dovere i compagni che facevano “i furbi”. Lo chiamavano Beppe il capo.
Serviva anche il Vescovo, quando attorniato dai canonici, “pontificava” in duomo: il Vescovo allora si chiamava Mons. Francesco Re e dall’alto della sua statura si chinava a volte a dare una carezza a quel bambino dagli occhi intelligenti e dal ciuffo sbarazzino sulla fronte.
Un po’ alla volta, gli nacque in cuore un grande desiderio: “Voglio farmi prete”. Lo disse al parroco, il quale gli promise un posto in Seminario, ma il posto non c’era mai. Beppe era solito frequentare anche la cappella delle Monache Domenicane di Alba e lì, da loro aveva sentito parlare con devozione di san Domenico di Guzman, “il dolce Spagnolo nostro” che aveva percorso l’Europa a predicare Gesù Cristo-Verità.
Giuseppe Girotti era nato il 19 luglio 1905 da umili genitori e ora, a 13 anni, voleva realizzare la sua vocazione. Un giorno, capitò a Alba un Padre Domenicano a predicare in duomo. Beppe ascoltò il bianco frate e volle parlargli. Gli aprì il cuore e gli disse il suo desiderio di diventare sacerdote. Il frate gli parlò chiaro: “Ma perché non vieni da noi?”. Beppe rispose: “Ma io vengo subito, basta che mi lasci andare a dirlo alla mamma”. (Tra parentesi: un suo compagno di giochi e di servizio all’altare, circa 70 anni dopo, mi raccontò che a volte dopo la Messa servita insieme, lui e Beppe salivano sul campanile e lassù “davanti a tutta Alba sotto il nostro sguardo, imparammo a fumare insieme una sigaretta!”).
Il 5 gennaio 1919, Beppe entrò felice nel Collegio domenicano di Chieri (Torino) per iniziare gli studi. Il 30 settembre 1922, vestiva il bianco abito di san Domenico, diventando fra Giuseppe Girotti. Dopo il noviziato a “La Quercia” (Viterbo), professava i voti la prima volta il 15 ottobre 1923. Seguirono gli studi filosofici e teologici nello Studentato di Chieri. Era intelligentissimo, sempre buono come un fratello, pronto a dare una mano a tutti, son estrema generosità, lieto della gioia dei figli di Dio.
Il 3 agosto 1930, vigilia di san Domenico, Padre Giuseppe Girotti era ordinato sacerdote a Chieri da Mons. Giacinto Scapardini, domenicano, Vescovo di Vigevano: sacerdote di Cristo per sempre.

I superiori lo mandarono a Roma a seguire corsi di teologia all’Angelicum. Aveva già conseguito a S. Maria delle Rose, in Torino, il titolo di “Lettore” che lo abilitava a insegnare nelle scuole dell’Ordine. Quindi, il suo provinciale, P. Ibertis, soprannominato “Napoleone” per il suo stile “decisionista” e la piccola statura, lo inviò a Gerusalemme, a frequentare l’Ecole Biblique, fondata e diretta ancora da P. Joseph Lagrange, biblista, maestro domenicano coltissimo e esemplare.
Allievo prediletto dell’insigne studiosi, P. Girotti visse anni felici, pieni di studi intensi e di preghiera estatica nei luoghi di Gesù e di Maria. Nel 1934, era “prolita”, dottore in Scienze Bibliche. Immediatamente fu destinato a insegnare Sacra Scrittura nello “Studium” domenicano di S. Maria delle Rose a Torino. I suoi 40 allievi lo amavano subito come un fratello maggiore che – come ricorda il P. Giacinto Bosco, suo allievo di quei tempo – “non si dava mai pace finché non avesse fatto tutto il possibile per aiutare chi lo cercava”.
Seguirono, nel 1936, la pubblicazione de I libri sapienziali da lui commentati, e nel 1942, Isaia commentato da P. G. Girotti, dedicato alla Madonna il 20 giugno, festa a Torino della Consolata. Due poderosi volumi che dimostrano l’enorme cultura biblica, storica, teologica del giovane esegeta. Risalta, in particolare, nel primo volume, il luminoso ritratto di Gesù, il Verbo di Dio, somma Sapienza del Padre, come viene profetizzato proprio dai Sapienziali, di Gesù, l’Amato cercato dall’amata, nel Cantico dei Cantici. Nel secondo volume – “Isaia” – è splendida la figura del Servo di Jahvé, Gesù appassionato, e crocifisso e morte sulla croce, che emerge nella contemplazione di P. Girotti, al momento dei Canti del Servo sofferente in particolare Is. 53. Molto intelligente la risposta che P. Girotti dà a coloro che parlano, senza fondamento, di “tre profeti diversi” raccolti sotto lo stesso nome di Isaia, solo per la differenza di stile: in realtà, c’è un solo Isaia, come insegna la Tradizione giudaica e cristiana, come c’è un solo Dante Alighieri, se pure con tre stili diversi, come appare nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso, le tre “cantiche” dell’unica Divina Commedia, opera dello stesso sommo Poeta! E poi, spiega sempre il prof. Girotti, “occorre credere al soprannaturale, al miracolo, alla profezia e come interventi di Dio, e non negarlo, come fanno i modernisti!”.
In una parola: due grossi volumi – un vero tesoro possederli – che erano il primo saggio del grande biblista che sarebbe diventato, se la sua vita fosse stata un po’ più lunga, come Lagrange, Sales, Vaccari Spadafora… per citare solo alcuni nomi illustri.
In quel periodo ebbe molto da soffrire. Nel 1938, fu allontanato dall’insegnamento e mandato nel convento di S. Domenico a Torino. P. Giuseppe, non aprì bocca, simile al “Servo di Jahvé” del cap. 53 di Isaia, che lui spiegava sempre con accenti commossi. Quando P. Cordovani, Da Roma, conobbe il torto che gli era stato fatto, commentò: “Queste sono le prove che formano i santi”.
Dottissimo e poliglotta, con il cuore semplice come un bambino, andava ogni giorno a esercitare il suo ministero sacerdotale tra i poveri e i vecchi dell’Ospizio davanti al suo convento, parlando e confessando in piemontese. Ciò che per lui contava al di sopra di tutto era amare Gesù, in se stesso, nell’Eucaristia, e poi nei poveri e nei sofferenti. Al “San Domenico”, si accingeva a commentare Geremia e a pubblicare studi sul monachesimo.
Ma non rimase a lungo senza cattedra. Lo chiamarono a insegnare Sacra Scrittura all’Istituto dei Missionari della Consolata: tanta gioia nel cuore tra i suoi chierici, futuri annunciatori del Vangelo ai popoli pagani, in Africa. Ora, P. Giuseppe aveva provato sulla sua pelle e sul suo cuore che cos’è il “Getsemani” che prepara a salire il Calvario.

Giuseppe Girotti nacque ad Alba (Cuneo) culla di tante figure di venerabili e fondatori, il 19 luglio 1905 da umile ma stimata famiglia. A 13 anni entrò nel seminario domenicano di Chieri (TO) per soddisfare la sua vocazione religiosa e lì nel 1930 fu ordinato sacerdote, l’anno successivo si laureò in teologia a Torino. 
Si specializzò presso la celebre “Ecole Biblique” di Gerusalemme e poi si dedicò all’insegnamento della Sacra Scrittura nel Seminario Teologico domenicano di ‘S. Maria delle Rose’ di Torino e nel contempo nel Collegio dei Missionari della Consolata. 
Nel 1937, pubblicò il VI volume dell’Antico Testamento dedicato ai Libri della Sapienza; continuando il commento alla Sacra Bibbia iniziato dal domenicano padre Marco Sales, morto nel 1936. 
Nel 1942 pubblicò il VII volume sul Libro di Isaia; nei due volumi profuse tutta la sua profondità di studi, esposti con chiarezza apprezzata. Stimato per la sua vasta cultura, amava esercitare il ministero sacerdotale anche tra la povera gente, specie nell’Ospizio dei “Poveri Vecchi”, vicino al suo convento. 
Estese la sua pratica della carità cristiana agli ebrei, durante la persecuzione antisemita della Seconda Guerra Mondiale. In campo religioso e politico era un anticonformista, fu quindi colpito dalla sospensione dall’insegnamento e sorvegliato dal regime fascista. 
Per la sua opera a favore degli ebrei, il 29 agosto 1944 fu catturato e deportato in Germania nel campo di concentramento di Dachau, dopo essere stato detenuto a ‘Le Nuove’ di Torino, ‘S. Vittore’ a Milano ed a Bologna. 
In quel campo, alla periferia di Monaco, stette sei mesi, sottoposto ai maltrattamenti tipici di quei campi, sopportati con umiltà, pazienza e mansuetudine, vivificati dalla preghiera e dallo studio della Parola di Dio. 
Per questo fu ammirato dagli altri religiosi e dai ministri di altre Confessioni religiose, prigionieri come lui; gli stenti e le violenze patite lo portarono alla morte a quasi 40 anni, nello stesso campo di Dachau, il giorno di Pasqua 1° aprile 1945, fra il rimpianto e la venerazione di tutti i deportati, i quali lo considerarono subito un santo. 
Nel 1988, presso la Curia di Torino iniziò il Processo di beatificazione con indagine sul martirio del padre domenicano Giuseppe Girotti, tali atti proseguono presso la Congregazione per le Cause dei Santi a Roma.

san turibio di mogrovejo vescovo

San Turibio de Mogrovejo

SanToribio-di-Mongrovejo

Turibio nacque da nobile famiglia a Maiorca (Spagna), nel 1538. Studiò Diritto nelle università di Coimbra e Salamanca. Aveva 40 anni ed era Presidente del Tribunale di Granada quando, su indicazione del Re Filippo II, il Papa Gregorio XIII lo nominò Arcivescovo di Lima.
Precipitosamente, quasi da un giorno all’altro, fu innalzato un semplice laico alla dignità di vescovo della Santa Chiesa. Sono così le vie della Provvidenza, quando ella decide di realizzare un’opera.  Si verificò col giurista Turibio lo stesso che, poco più di mille anni prima, si era verificato con lo statista Sant’Ambrogio: in quattro domeniche consecutive, Turibio ricevette gli ordini minori; poche settimane dopo fu ordinato presbitero e, infine, consacrato vescovo. San Turibio di Mogrovejo arrivò alla sua arcidiocesi nel maggio 1581. All’inizio dovette affrontare la decadenza spirituale degli spagnoli colonizzatori, i cui abusi i sacerdoti non osavano correggere. Il nuovo arcivescovo attaccò il male alla radice. Molti dei colpevoli di intollerabili vizi e scandali cercavano di giustificarsi:
– Facciamo quello che è costume essere fatto qui…
– Ma Cristo è verità, e non costume!- egli replicava.
Con energia e, soprattutto, col suo esempio personale, mise un freno agli abusi, moralizzò i costumi e promosse la riforma del clero.
In poco tempo, l’ex-giurista si trasformò in un esimio catechista che evangelizzava gli indigeni con parole semplici ma ardenti. Percorse tre volte in visita pastorale tutto l’immenso territorio della sua arcidiocesi, viaggiando instancabilmente per migliaia di chilometri. Entrava nelle capanne miserabili, cercava gli indigeni fuggitivi, sorrideva loro paternamente, parlava loro con bontà nei loro idiomi e li conquistava a Cristo. Le tre visite pastorali gli occuparono più di dieci dei suoi venticinque anni di episcopato!
Convocò e presiedette tredici sinodi regionali di vescovi. Regolamentò e perfezionò la catechesi degli indigeni e fece stampare per loro i primi libri pubblicati nell’America del Sud: il Catechismo in spagnolo, in quéchua e in aymara. Fondò cento nuove parrocchie nella sua arcidiocesi.
Tutto questo senza pregiudicare in nulla il punto fondamentale di ogni apostolo autentico: la sua propria vita spirituale. Richiamò l’attenzione di tutti coloro che avevano vissuto insieme a lui la sua intensa vita di devozione, alla quale dedicava quotidianamente molte ore di preghiera e meditazione.

Ebbe l’inestimabile soddisfazione di convertire migliaia di indigeni e di cresimare tre santi: San Martino di Porres, San Francesco Solano e Santa Rosa di Lima.
La morte lo colse nel corso della sua ultima visita pastorale, in una povera cappella a quasi 500 chilometri da Lima. Sentendo approssimarsi l’ora estrema, recitò il Salmo 122: “Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore!”. Spirò dolcemente alle 15,30 del 23 marzo 1606, un Giovedì Santo.
Benedetto XIII lo canonizzò nel 1726 e Giovanni Paolo II lo ha proclamato Patrono dell’Episcopato Latino- Americano nel 1983.

San Turibio di Mogrovejo è stato perfettamente consapevole che il ministero pastorale ha un senso solamente se è vissuto in santità e se la promuove: è stata una evangelizzazione alla santità.
Contemplare la figura di San Turibio di Mogrovejo è contemplare la figura di un vescovo che si dedica con esuberante generosità al suo ministero, senza dare alcuna importanza alle difficoltà e agli inconvenienti che si possono eventualmente incontrare durante il cammino. 
Può sorgere allora legittima la domanda: quale è stato il segreto della santità di San Turibio di Mogrovejo?
Il segreto della santità di San Turibio, come di qualsiasi santo, è stato il suo essere prossimo a Dio, la sua fedeltà alla preghiera, elemento fondamentale del suo ministero apostolico. È un dato di fatto che nella vita spirituale la persona progredisce nella misura in cui prega. (…)
L’amore verso i bisognosi è stato pure un tratto caratteristico della fisionomia spirituale dell’Apostolo del Perù. Questo amore per i poveri si manifestava negli innumerevoli gesti realizzati dal Santo, dal suo tratto affabile con gli indi e i bisognosi, passando per la consegna ai poveri dei beni che riusciva ad ottenere, giungendo persino alla donazione dei suoi stessi vestiti, mobili, e utensili domestici.
In San Turibio rafforziamo la nostra convinzione che il tempo consacrato a Dio è garanzia di una fedele dedizione al compimento dei propri doveri e al servizio dei fratelli.
Nella preghiera, San Turibio Alfonso di Mogrovejo comprese che “una delle caratteristiche fondamentali del pastore dev’essere amare gli uomini che gli sono stati affidati, allo stesso modo di come ama Cristo, di cui è al servizio”. Egli ha compreso il ministero pastorale come lo concepisce il nostro caro Papa Benedetto XVI, che ha detto nella Messa di inaugurazione del suo Ministero Petrino: “Pascere vuol dire amare; e amare vuol dire anche essere disposto a soffrire. Amare significa dare alle pecore il vero bene, l’alimento della verità di Dio, l’alimento della sua presenza, che Egli soltanto ci dà nel Santissimo Sacramento”.

domenica delle palme

Domenica delle Palme

domenica delle palme

La Domenica delle Palme giunge quasi a conclusione del lungo periodo quaresimale, iniziato con il Mercoledì delle Ceneri e che per cinque liturgie domenicali, ha preparato la comunità dei cristiani, nella riflessione e penitenza, agli eventi drammatici della Settimana Santa, con la speranza e certezza della successiva Risurrezione di Cristo, vincitore della morte e del peccato, Salvatore del mondo e di ogni singola anima.
I Vangeli narrano che giunto Gesù con i discepoli a Betfage, vicino Gerusalemme (era la sera del sabato), mandò due di loro nel villaggio a prelevare un’asina legata con un puledro e condurli da lui; se qualcuno avesse obiettato, avrebbero dovuto dire che il Signore ne aveva bisogno, ma sarebbero stati rimandati subito.
Dice il Vangelo di Matteo (21, 1-11) che questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato annunziato dal profeta Zaccaria (9, 9) “Dite alla figlia di Sion; Ecco il tuo re viene a te mite, seduto su un’asina, con un puledro figlio di bestia da soma”.
I discepoli fecero quanto richiesto e condotti i due animali, la mattina dopo li coprirono con dei mantelli e Gesù vi si pose a sedere avviandosi a Gerusalemme.
Qui la folla numerosissima, radunata dalle voci dell’arrivo del Messia, stese a terra i mantelli, mentre altri tagliavano rami dagli alberi di ulivo e di palma, abbondanti nella regione, e agitandoli festosamente rendevano onore a Gesù esclamando “Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell’alto dei cieli!”. 
A questa festa che metteva in grande agitazione la città, partecipavano come in tutte le manifestazioni di gioia di questo mondo, i tanti fanciulli che correvano avanti al piccolo corteo agitando i rami, rispondendo a quanti domandavano “Chi è costui?”, “Questi è il profeta Gesù da Nazareth di Galilea”.
La maggiore considerazione che si ricava dal testo evangelico, è che Gesù fa il suo ingresso a Gerusalemme, sede del potere civile e religioso in Palestina, acclamato come solo ai re si faceva, a cavalcioni di un’asina.
Bisogna dire che nel Medio Oriente antico e di conseguenza nella Bibbia, la cavalcatura dei re, prettamente guerrieri, era il cavallo, animale nobile e considerato un’arma potente per la guerra, tanto è vero che non c’erano corse di cavalli e non venivano utilizzati nemmeno per i lavori dei campi.
Logicamente anche il Messia, come se lo aspettavano gli ebrei, cioè un liberatore, avrebbe dovuto cavalcare un cavallo, ma Gesù come profetizzato da Zaccaria, sceglie un’asina, animale umile e servizievole, sempre a fianco della gente pacifica e lavoratrice, del resto l’asino è presente nella vita di Gesù sin dalla nascita, nella stalla di Betlemme e nella fuga in Egitto della famigliola in pericolo.
Quindi Gesù risponde a quanti volevano considerarlo un re sul modello di Davide, che egli è un re privo di ogni forma esteriore di potere, armato solo dei segni della pace e del perdono, a partire dalla cavalcatura che non è un cavallo simbolo della forza e del potere sin dai tempi dei faraoni.
La liturgia della Domenica delle Palme, si svolge iniziando da un luogo adatto al di fuori della chiesa; i fedeli vi si radunano e il sacerdote leggendo orazioni ed antifone, procede alla benedizione dei rami di ulivo o di palma, che dopo la lettura di un brano evangelico, vengono distribuiti ai fedeli (possono essere già dati in precedenza, prima della benedizione), quindi si dà inizio alla processione fin dentro la chiesa.
Qui giunti continua la celebrazione della Messa, che si distingue per la lunga lettura della Passione di Gesù, tratta dai Vangeli di Marco, Luca, Matteo, secondo il ciclico calendario liturgico; il testo della Passione non è lo stesso che si legge nella celebrazione del Venerdì Santo, che è il testo del Vangelo di s. Giovanni.
Il racconto della Passione viene letto alternativamente da tre lettori rappresentanti: il cronista, i personaggi delle vicenda e Cristo stesso. Esso è articolato in quattro parti: l’arresto di Gesù; il processo giudaico; il processo romano; la condanna, l’esecuzione, morte e sepoltura.
Al termine della Messa, i fedeli portano a casa i rametti di ulivo benedetti, conservati quali simbolo di pace, scambiandone parte con parenti ed amici. Si usa in molte regioni, che il capofamiglia utilizzi un rametto, intinto nell’acqua benedetta durante la veglia pasquale, per benedire la tavola imbandita nel giorno di Pasqua.
In molte zone d’Italia, con le parti tenere delle grandi foglie di palma, vengono intrecciate piccole e grandi confezioni addobbate, che vengono regalate o scambiate fra i fedeli in segno di pace.
La benedizione delle palme è documentata sin dal VII secolo ed ebbe uno sviluppo di cerimonie e di canti adeguato all’importanza sempre maggiore data alla processione. Questa è testimoniata a Gerusalemme dalla fine del IV secolo e quasi subito fu accolta dalla liturgia della Siria e dell’Egitto.
In Occidente giacché questa domenica era riservata a cerimonie prebattesimali (il battesimo era amministrato a Pasqua) e all’inizio solenne della Settimana Santa, benedizione e processione delle palme trovarono difficoltà a introdursi; entrarono in uso prima in Gallia (sec. VII-VIII) dove Teodulfo d’Orléans compose l’inno “Gloria, laus et honor”; poi in Roma dalla fine dell’XI secolo.
L’uso di portare nelle proprie case l’ulivo o la palma benedetta ha origine soltanto devozionale, come augurio di pace.
Da venti anni, nella Domenica delle Palme si celebra in tutto il mondo cattolico la ‘Giornata Mondiale della Gioventù’, il cui culmine si svolge a Roma nella Piazza S. Pietro alla presenza del papa.

san giuseppe

San Giuseppe

san giuseppe

Il nome Giuseppe è di origine ebraica e sta a significare “Dio aggiunga”, estensivamente si può dire “aggiunto in famiglia”. Può essere che l’inizio sia avvenuto col nome del figlio di Giacobbe e Rachele, venduto per gelosia come schiavo dai fratelli. Ma è sicuramente dal padre putativo, cioè ritenuto tale, di Gesù e considerato anche come l’ultimo dei patriarchi, che il nome Giuseppe andò diventando nel tempo sempre più popolare. In Oriente dal IV secolo e in Occidente poco prima dell’XI secolo, vale a dire da quando il suo culto cominciava a diffondersi tra i cristiani. Non vi è dubbio tuttavia che la fama di quel nome si rafforzò in Europa dopo che nell’Ottocento e nel Novecento molti personaggi della storia e della cultura lo portarono laicamente, nel bene e nel male: da Francesco Giuseppe d’Asburgo a Garibaldi, da Verdi a Stalin, da Garibaldi ad Ungaretti e molti altri ancora.
  San Giuseppe fu lo sposo di Maria, il capo della “sacra famiglia” nella quale nacque, misteriosamente per opera dello Spirito Santo, Gesù figlio del Dio Padre. E orientando la propria vita sulla lieve traccia di alcuni sogni, dominati dagli angeli che recavano i messaggi del Signore, diventò una luce dell’esemplare paternità. Certamente non fu un assente. È vero, fu molto silenzioso, ma fino ai trent’anni della vita del Messia, fu sempre accanto al figliolo con fede, obbedienza e disponibilità ad accettare i piani di Dio. Cominciò a scaldarlo nella povera culla della stalla, lo mise in salvo in Egitto quando fu necessario, si preoccupò nel cercarlo allorché dodicenne era “sparito’’ nel tempio, lo ebbe con sé nel lavoro di falegname, lo aiutò con Maria a crescere “in sapienza, età e grazia”. Lasciò probabilmente Gesù poco prima che “il Figlio dell’uomo” iniziasse la vita pubblica, spirando serenamente tra le sue braccia. Non a caso quel padre da secoli viene venerato anche quale patrono della buona morte.
  Giuseppe era, come Maria, discendente della casa di Davide e di stirpe regale, una nobiltà nominale, perché la vita lo costrinse a fare l’artigiano del paese, a darsi da fare nell’accurata lavorazione del legno. Strumenti di lavoro per contadini e pastori nonché umili mobili ed oggetti casalinghi per le povere abitazioni della Galilea uscirono dalla sua bottega, tutti costruiti dall’abilità di quelle mani ruvide e callose.
  Di lui non si sanno molte cose sicure, non più di quello che canonicamente hanno riferito gli evangelisti Matteo e Luca. Intorno alla sua figura si sbizzarrirono invece i cosiddetti vangeli apocrifi. Da molte loro leggendarie notizie presero però le distanze personalità autorevoli quali San Girolamo (347 ca.-420), Sant’Agostino (354-430) e San Tommaso d’Aquino (1225-1274). Vale la pena di riportare soltanto una leggenda che circolò intorno al suo matrimonio con Maria. In quella occasione vi sarebbe stata una gara tra gli aspiranti alla mano della giovane. Quella gara sarebbe stata vinta da Giuseppe, in quanto il bastone secco che lo rappresentava, come da regolamento, sarebbe improvvisamente e prodigiosamente fiorito. Si voleva ovviamente con ciò significare come dal ceppo inaridito del Vecchio Testamento fosse rifiorita la grazia della Redenzione.
  San Giuseppe non è solamente il patrono dei padri di famiglia come “sublime modello di vigilanza e provvidenza” nonché della Chiesa universale, con festa solenne il 19 marzo. Egli è oggi anche molto festeggiato in campo liturgico e sociale il 1° maggio quale patrono degli artigiani e degli operai, così proclamato da papa Pio XII. Papa Giovanni XXIII gli affidò addirittura il Concilio Vaticano II. Vuole tuttavia la tradizione che egli sia protettore in maniera specifica di falegnami, di ebanisti e di carpentieri, ma anche di pionieri, dei senzatetto, dei Monti di Pietà e relativi prestiti su pegno. Viene addirittura pregato, forse più in passato che oggi, contro le tentazioni carnali.
  Che il culto di San Giuseppe abbia raggiunto in passato vette di popolarità lo dimostrano anche le dichiarazioni di moltissime chiese relative alla presenza di sue reliquie. Per fare qualche esempio particolarmente significativo: nella chiesa di Notre-Dame di Parigi ci sarebbero gli anelli di fidanzamento, il suo e quello di Maria; Perugia possiederebbe il suo anello nuziale; nella chiesa parigina dei Foglianti si troverebbero i frammenti di una sua cintura. Ancora: ad Aquisgrana si espongono le fasce o calzari che avrebbero avvolto le sue gambe e i camaldolesi della chiesa di S. Maria degli Angeli in Firenze dichiarano di essere in possesso del suo bastone. È sicuramente un bel “aggiunto” di fede.

san giovanni cacciafronte de sordi

Beato Giovanni Cacciafronte de Sordi

san giovanni cacciafronte de sordi

Visse al tempo della lotta intrapresa dall’imperatore Federico Barbarossa (1125-1190), contro il Papato ed i Comuni italiani.
Giovanni nacque a Cremona verso il 1125 da Evangelista Sordi e da Berta Persico, ambedue di nobilissime origini; ancora in tenera età Giovanni Sordi perse il padre, la madre si risposò con il nobile Adamo Cacciafronte, il quale lo amò come un figlio proprio, dandogli il suo nome; fu educato in modo eccellente dai due genitori, ricevendo una formazione religiosa e culturale.
A sedici anni entrò come monaco benedettino nell’Abbazia di S. Lorenzo a Cremona; con gli anni le sue qualità e virtù furono sempre più evidenti, conquistandosi le simpatie dei superiori e dei confratelli.
Fu nominato dapprima priore del piccolo monastero di S. Vittore, dipendente dall’abbazia di S. Lorenzo e poi abate della stessa grande Abbazia di Cremona. 
In quegli anni nella Chiesa scoppiò lo scisma, con l’elezione dell’antipapa Vittore IV (1159-1164), sostenuto da Federico Barbarossa, contro il legittimo papa Alessandro III (1159-1181), che si opponeva allo strapotere imperiale, appoggiando la Lega Lombarda dei Comuni, che contrastava l’invasione delle truppe del Barbarossa.
L’abate Cacciafronte con la sua influenza, riuscì a mantenere Cremona nell’obbedienza al papa Alessandro III, ma l’imperatore lo fece esiliare; in seguito il papa lo incaricò del governo della diocesi di Mantova, non è precisato se come Amministratore Apostolico oppure come vescovo, al posto del vescovo Graziadoro che aveva aderito allo scisma dell’antipapa Vittore IV e dei suoi successori Pasquale III (1164-1168) e Callisto III (1168-1179).
Dopo la famosa battaglia di Legnano (29 maggio 1176) persa dall’imperatore ad opera della Lega Lombarda, al cui capo era stato eletto il papa Alessandro III (è di quel periodo la fondazione di una nuova città, chiamata in onore del papa, Alessandria); ci fu la pace trattata a Venezia nel 1179, l’antipapa in carica Callisto III fu deposto.
Nella sede episcopale di Mantova ritornò il pentito vescovo Garziadoro e sempre nel 1179, mons. Giovanni Cacciafronte de Sordi, fu trasferito alla sede vescovile di Vicenza, in quel periodo senza vescovo.
Appena due anni dopo, il 16 marzo 1181 il vescovo Cacciafronte fu ucciso da un certo Pietro, feudatario in concessione dei beni delle Chiesa vicentina, il quale volle vendicarsi perché il vescovo l’aveva scomunicato e privato dei beni, a causa delle sue frequenti violazioni dei diritti delle Chiesa.
L’assassinio del vescovo è citato nelle ‘decretali’ di papa Gregorio IX (1227-1241), nel testo di una lettera del 21 marzo 1198, inviata dal papa Innocenzo III, al vescovo di Vicenza, mons. Pistore, vietandogli di dare in feudo i beni della Chiesa agli assassini del vescovo Giovanni ed ai loro eredi.
La salma del santo vescovo e martire fu tumulata nella cattedrale di Vicenza e traslata nella stessa cattedrale nel 1441, in una più degna tomba marmorea.
Il culto del beato Giovanni Cacciafronte de Sordi, vescovo e martire, da secoli tributatogli, fu confermato da papa Gregorio XVI il 30 marzo 1824.
La sua festa liturgica è fissata al 16 marzo mentre nella diocesi di Mantova la sua memoria si celebra il 9 luglio.

santa cristina martire in persia

Santa Cristina

santa cristina martire in persia

Il Sinassario Costantinopolitano commemora il 14 marzo una santa Cristina, martire in Persia (nel cod. Parig. Coislin 223 la commemorazione è anticipata al 13 marzo e vi si aggiunge che la martire fu fustigata). Anche il Martirologio Romano la ricorda il 13 marzo.
Di una Cristina martire persiana, chiamata anche Iazdo, figlia di Iazdin, ci resta, sebbene non completa, una passio in siriaco pubblicata dal Bedjan. Non esistono ragioni sufficienti per negare l’identificazione di questa Cristina o Iazdo, con la Cristina commemorata dal Sinassario Costantinopolitano; appare invece non sufficientemente motivata l’opinione espressa nel commento al Martirologio Romano, secondo cui essa sarebbe da identificarsi con la santa Sira o Sirin che subì il martirio sotto Cosroe I il 15 marzo del 559.

san sofronio di gerusalmme

San Sofronio di Gerusalemme

san sofronio di gerusalmme

Sofronio “il sofista”, una delle personalità più interessanti dell’epoca, colto, di mentalità aperta ed appassionato difensore dell’ortodossia, nacque a Damasco verso il 550. Abandonò ancora giovincello la sua città natale, per intraprendere numerosi viaggi, ma sempre rimase orgoglioso del suo luogo d’origine, “dove Paolo arrivò cieco e da dove partì guarito, dove un persecutore in fuga divenne un predicatore; la città che diede rifugio all’apostolo e da cui fuggì in un cesto calato dalla finestra, meritandosi così le grazie dei santi ed acquistando una grande fama […]”. Sofronio compì i suoi studi prevalentemente a Damasco, ove fu istruito nella cultura greca e siriaca. Desideroso di farsi monaco, fece visita alla laura di San Teodosio in Giudea e qui incontrò Giovanni Mosco, con il quale strinse un duraturo legame di amicizia.
Difficile è valutare l’influnza che ciascuno esercitò sull’altro: Sofronio era decisamente più colto, ma considerava l’amico sua guida spirituale e suo consigliere. Il principale loro legame era forse costituito dalla comune fede calcedonese, ma iniziarono anche una collaborazione nel tramandare alle generazioni future le vite dei Padri del deserto. I contrasti già presenti a quel tempo nel mondo mediorientale spinsero i due amici a spostarsi molto, ospitati da diversi monasteri. Tra il 578 ed il 584 furono in Egitto, ove Sofronio fu allievo dell’aristotelico Stefano di Alessandria ed entrambi divennero amici di Teodoro il filosofo e Zoilo, quest’ultimo erudito calligrafo. In questo periodo Sofronio iniziò a perdere la vista, ma fu miracolato visitando la tomba dei Santi Ciro e Giovanni presso Menuti ed in ringraziamento scrisse un resoconto di ben settanta miracoli attribuiti alla loro intercessione.
Dal 584 in poi diventa difficile ricotruire con esattezza i loro movimenti. Per un certo tempo pare presero strade diverse: Sofronio divenne monaco nel monastero di San Teodosio, mentre Giovanni Mosco vagò tra il Sinai, la Cilicia e la Siria. I due amici si ritrovaro infine al servizio del patriarca d’Alessandria, San Giovanni l’Elemosiniere, nominato nel 610. Pochi anni dopo i persiani occuparono i luoghi santi e si diressero verso l’Egitto, quindi il patriarca con Sofronio e Govanni Mosco partirono per Cipro, passarono poi ad altre isole ed infine giunsero a Roma. Nella Città Eterna Giovanni l’Elemosiniere morì nel 619, consegnando a Sofronio le sue ultime volontà.
Grande impegno profuse Sofronio per contrastere le eresie dilaganti, in particolare il monotelismo che l’imperatore Eraclio aveva imposto a tutto l’impero con il benestare del patriarca Sergio di Costantinopoli. Dal 634 Sofronio fu il nuovo patriarca di Gerusalemme, ruolo che gli permise di proseguire con maggiore autorevolezza la sua battaglia. Essendo sempre più evidenti le eresie in cui stava cadendo Sergio e nel timore che papa Onorio potesse cadere nella trappola, incaricò Stefano di Dora di recarsi a Roma in sua vece, essendo lui impossibilitato per un’imminente invasione saracena, e lo fece giurare sul Calvario di rimanere fedele alla fede calcedonese.
L’inviato riferì al concilio Lateranense del 649 la volontà di Sofronio: Là mi fece promettere con giuramento solenne: “Se tu dimentichi o disprezzi la fede che ora è minacciata, dovrai rendere conto a colui che, sebbene Dio, fu crocifisso in questo santo luogo, quando nella sua prossima venuta Egli giudicherà i vivi e i morti. Come tu sai, non posso compiere questo viaggio a causa dell’invasione dei saraceni […]. Vai senza indugio fino all’altra estremità della terra, alla sede apostolica, il fondamento dell’insegnamento ortodosso e di’ ai santi uomini che sono là non una, non due, ma molte volte ciò che sta accadendo; di’ loro tutta la verità e nulla più. Non esitare, domanda loro e pregali insistentemente di utilizzare la loro ispirata sapienza per emettere un giudizio definitivo e annientare questo nuovo insegnamento che ci è stato inflitto”. Impressionato dal solenne appello che Sofronio aveva pronunciato in quel luogo santo e venerabile, e considerato il potere episcopale che per grazia di Dio mi era stato conferito, partii subito per Roma. Sono qui davanti a voi per la terza volta, chino davanti alla sede apostolica implorando, come Sofronio e molti altri fecero, “venite in aiuto della fede cattolica minacciata”.
Ci vollere ben dieci anni prima che il papa San Martino I condannasse l’eresia al medesimo concilio. Sofronio scese a patti con i saraceni per evitare stragi di popolo a Gerusalemme, ma morì pochi mesi dopo nel 639. Lasciò ai posteri diverse omelie, una splendida orazione per benedire l’acqua nella festa del Battesimo del Signore, nonché inni e cantici di straordinaria bellezza. I suoi tropari per la settimana santa costituirono la fonte degli “Improperia” tuttora recitati nella liturgia del Venerdì Santo.